In un intervento per la Harvard Business Review dal titolo “What is strategy?” (1996) il docente ed economista Michael Porter ha sottolineato la netta distinzione tra l’efficacia operativa – che spesso implica l’identificazione e l’implementazione delle best practice – e una vera strategia aziendale. Porter ha sostenuto che competere principalmente sulla base dell’efficacia operativa è di solito una ricetta per il disastro. Ha scritto: “Più analisi comparative fanno le aziende, più si assomigliano… imitandosi l’un l’altra in termini di qualità, partnership con i fornitori… le strategie convergono e la competizione diventa una gara su percorsi identici che nessuno può vincere”.
A partire dall’articolo di Porter, Philipp Nattermann sviluppò una discussione simile per il McKinsey Quarterly. In questo articolo, Nattermann sostiene che i leader aziendali si affidano troppo al benchmarking (ovvero all’analisi comparativa) e alle migliori pratiche perché: “… non capiscono che il benchmarking è semplicemente uno strumento operativo e non una strategia, e che identificare le pratiche di aziende di successo ed emulare tali pratiche diminuisce i margini di successo perché sempre più operatori competono per segmenti sempre più piccoli di clienti e risorse”.
Nonostante i rischi associati alle best practice, i leader aziendali continuano a considerare l’identificazione e l’implementazione delle migliori pratiche come uno degli strumenti di gestione più potenti a loro disposizione. E non è difficile capire perché l’uso delle migliori pratiche rimanga così popolare. Sembra estremamente ragionevole identificare le pratiche di aziende di successo e ad alte prestazioni e cercare di emulare tali pratiche.
Questo perché il successo del marketing è difficile da raggiungere e ancora più difficile da sostenere perché il suo panorama è in continua evoluzione e perché è incredibilmente difficile prevedere quali metodi, canali e formati di marketing attraggono i potenziali clienti.
Per questo le buone pratiche, già applicate e comprovate, esercitano un grande fascino sui marketer, perché sembrano rappresentare una garanzia di successo.
Le best practice di marketing possono essere utili quando sono comprese correttamente e utilizzate in modo appropriato, ma è facile per i professionisti del marketing essere affascinati dai benefici promessi dalle migliori pratiche e dimenticare i loro limiti.
Una delle caratteristiche più paradossali è che quanto più ampiamente vengono utilizzate, tanto meno efficaci tendono a diventare.
Una best practice di marketing può risultare efficace per diversi motivi. Può essere efficace perché si basa su solidi principi di business, perché risuona con il modo in cui i potenziali clienti prendono decisioni o perché sfrutta efficacemente le potenzialità di un particolare mezzo di comunicazione.
Ma, soprattutto, sottolinea Nattermann, le best practice di marketing sono anche molto efficaci – almeno per un certo periodo – proprio perché si distinguono.
Quando una best practice è nuova, tende ad essere utilizzata da un numero relativamente ristretto di aziende. Pertanto, la pratica si distingue sul mercato e cattura l’attenzione dei potenziali clienti. Ma man mano che sempre più aziende implementano la pratica, perde parte del carattere distintivo che la rende altamente efficace. Il content marketing è un buon esempio di best practice di marketing che ora è più impegnativo perché ampiamente utilizzato.
Il concetto di fondo è che identificare e implementare le best practice di marketing può portare a un temporaneo miglioramento dei risultati di marketing, ma non fornirà prestazioni migliori e garanzie di successo a lungo termine. Per ottenere prestazioni di marketing superiori serve un’efficace strategia, che si avvalga di metodi e tattiche che rendano l’azienda distintiva sul mercato, applicando quello che Porter ha definito il modello delle 5 forze competitive: concorrenti diretti, fornitori, clienti, potenziali entranti e produttori di beni sostitutivi. Elementi che determinano bene la concorrenza in un settore.